Crash! Vetri infranti, lamiere, urla.

Mi immaginavate infreddolito in una capanna indiana? In Colombia la fantasia supera la realtà: vi scrivo da Cali, dalla connessione Internet dell'Hotel Casa dell' Alferez, cinque stelle, Sofitel, camerieri impeccabili, sciurette colombiane arricchite in fretta, guardaspalle e qualche siciliano dall'aria rapace che, nella hall, sussurra chissà cosa a colombiani vestiti con abiti di sartoria troppo eleganti per non stonare con le facce da barrio miseria.



Va bene essere flessibili, va bene cambiare i piani, ma cos' è successo?
Dunque: l'altra mattina partiamo prestissimo in direzione Cali. Ci fermiamo a un distributore, noto lo stato degli pneumatici: sono liscissimi, uno lascia addirittura vedere i fili d'acciaio. Chiedo a Federico di cambiarli. E' una follia andare in giro così. Federico nicchia un po', la sua ONG non c'ha una lira. Allora decido di finanziargli la metà dell'acquisto. Consideriamolo un investimento, gli dico: un investimento in sicurezza.



Poi mi accorgo - i colombiani sono un po' approssimativi - che la mia cintura di sicurezza non funziona, si è bloccata. Federico ha fretta di andare, ma io insisto: senza la cintura non viaggio. Lui sbuffa un po', poi ci fermiamo da un meccanico e la facciamo aggiustare.

Viaggio stupendo, ci arrampichiamo sulla Cordillera Central per una strada tutta curve chiamata ironicamente La Linea, con fortissime salite e discese dove arrancano bilici enormi tipo Duel: qui li chiamano tractomulas, e fanno paura. Sono prepotenti e si prendono tutta la curva. Piccoli autobus vanno come matti sulla strada bagnata, fanno sorpassi pazzeschi, suonano clacson fantasiosissimi: sabor tropical.

Dal freddo della Cordillera scendiamo nella Valle del Cauca: il paesaggio si fa più dolce e tropicale, banani, manghi e piantagioni di caffè, risaie. La gente ha l'aria più gentile e distesa che a Bogotà. La guerriglia e i paramilitari si tengono sulle alture, non scendono fino alla Panamericana. Ci sono molti retenes (posti di blocco) della polizia, ma sono generalmente gentili e sorridenti.



Quando stiamo per arrivare verso Cali, una piccola Mazda davanti a noi tenta di sorpassare un camioncino in curva. Nella direzione opposta arriva un camion. Il camion cerca disperatamente di evitarla uscendo di strada, ma la Mazda scivola sull'asfalto bagnato, BAM!: il camion la fa prillare e la scaglia verso noi che stiamo arrivando. CRASH! Colpo fortissimo, rumore di vetri rotti, lamiere. Vengo sbattuto violentemente contro il cruscotto, ma per fortuna la cintura mi trattiene. Gli pneumatici nuovi hanno aiutato la frenata. Siamo fermi, un po' intontiti, ma tutti interi. Io, calmo, dico a Federico: "Tranquilo. Encende laz luces de emergencia y no dejar el carro. Quedate aquí. (Metti i lampeggianti e non uscire. Stai qui.)"

Dalla Mazda arrivano delle urla. Ci sono quattro donne imprigionate tra le lamiere. Federico mi ha raccontato poi che il mio tono di voce calmo gli ha dato la forza di non mettersi a urlare a sua volta. Stiamo lì seduti un minuto che sembra un secolo, aspettando le botte delle altre macchine.



Per fortuna non arrivano. Il traffico dietro a noi si è fermato. Federico scende. Gli dico: "Dì alla gente di non cercare di estrarre i feriti, digli di aspettare l'ambulanza."
Io resto in macchina. Anche se ho un po' di esperienza di ambulanza non ho voglia di farmi i cazzi di un paese straniero. E infatti. Già frotte di volonterosi estraggono le donne dalle macchine senza il minimo principio di sicurezza. "Vien, vien!" "Trahila, trahilaaaa!" "Por aquì, por aquì". Dalla Mazda accartocciata salgono i lamenti delle quattro donne: una mamma, una figlia e due amiche che andavano a fare shopping a Cali. La mamma guidava e ha fatto la bravata di sorpassare in curva, poi probabilmente ha visto il camion, si è spaventata, ha frenato, è scivolata sull'asfalto bagnato ed è andata a sbattere contro il camion, che l'ha scagliata contro di noi.



La polizia era dietro la curva: arriva subito e, col mitra a bandoliera, aggiunge confusione alla confusione. Tutti urlano, strepitano. E quando arriva l'ambulanza è anche peggio: i soccorsi sono confusi, concitati e approssimativi; nessuno mette un collare a un ferito. Scendono due con la barella a cucchiaio (che si apre in due e permette di raccogliere il paziente senza bisogno di spostarlo), la posano vicino alla paziente, la sollevano di peso e l'appoggiano sulla barella. Se la signora resta paralizzata sa chi ringraziare. Niente steccobende, niente flebo, niente di niente. Le macchine della polizia - in una giornata grigia di pioggia - lasciano i lampeggianti spenti.
Cercate di non fare mai un incidente in Colombia.



Adagiata sul terreno bagnato c'è una ragazzina con un polso che si sta gonfiando a vista d'occhio. Era l'unica con la cintura di sicurezza, che le ha fatto un'escoriazione sul collo e un lungo livido trasversale, ma le ha salvato la vita. La copro con la mia giacca a vento, la consolo un po'. Mi chiede come sta la mamma, quella che guidava. E' la più grave, l'hanno portata via subito. Le dico che forse ha un braccio fratturato, ma che non mi è sembrata grave.

Arrivano anche i bomberos, i pompieri, su un pick-up sgangherato con un lampeggiante che funziona e uno no. Hanno l'asse spinale, ma la usano come una barella, senza nemmeno legare i pazienti: li caricano nel cassone del pickup e li portano all'ospedale così, al freddo, senza nemmeno coprirli per ripararli dallo shock. Tre di loro hanno la giacca arancione con la scritta in italiano "VIGILI DEL FUOCO" Chiedo a uno dove l'ha presa, risponde che è una donazione, forse degli Stati Uniti. Gente sveglia il ciel l'aiuta.



La serata è lunga, la polizia ci trattiene, sono storie infinite di documenti e burocrazia, dichiarazioni e assicurazioni. Cala la notte e noi siamo ancora lì in mezzo alla strada, tra i relitti delle auto e i frammenti di vetro. Finalmente i poliziotti accendono i lampeggianti. Passano le enormi tractomulas, grandi come astronavi e coperte di luci colorate come luna park, suonando i loro clackson da nave.

La macchina è un po' ammaccata, noi due stiamo benissimo e l'assicurazione kasko di Federico ci offre questo albergo a cinque stelle. Senza cintura di sicurezza e con gli pneumatici lisci forse non sarei qui a raccontarla.

Vedi, alle volte: il destino, la panza, chissà.









Cali e le sue delizie.

Avvocati, giudici, assicurazioni: anche oggi siamo stati costretti a rimanere a Cali, che è una cittadina con un clima delizioso, caldo il giorno (ma senza esagerare: non come voi che siete costretti nelle fornaci di Milano o Roma) e con una piacevole brezzolina la sera.

Cali è una città piacevole sui barrios della collina a ovest del Rio Cali, casette basse tra gli alberi dei viali, bar e ristorantini carini, piccole botteghe d'arte, negozi di arredamento spesso belli e rarefatti, molto zen. E' orrenda nei barrios a est del fiume, formicai pieni di desplazados. La solita storia della Colombia a due marce, la prima e la quinta.

Dalle montagne intorno arrivano, attutite, notizie di scontri a fuoco, ma i giornali nemmeno le riportano. Corrono di bocca in bocca. La città è tranquilla a parte, ogni tanto, certi tipetti tutti tirati che vanno due a due o tre a tre, le facce che sembrano tagliacarte.

Domani ripartiamo. Abbiamo pensato per un po' di noleggiare una jeep, ma tutte quelle che ci proponevano erano troppo belle, troppo nuove e soprattutto troppo visibili per non far gola a banditi, paramilitari o guerriglieri. Abbiamo deciso di tenere un profilo più basso, spostandoci con chivas, colectivos e trasporti locali. Domenica torneremo a Bogotà.

Ci sentiamo alla fine della settimana!







Sergio Vieira de Mello

Torno oggi da un lungo blackout nella piovosissima costa pacifica (niente giornali, niente telefono, niente radio, niente ragazze, niente di niente) e scopro che in un attentato a Bagdad è morto Sergio Vieira de Mello.

Lo avevo conosciuto a Timor Est, era stato il commissario straordinario delle Nazioni Unite per la transizione e la nascita della nuova Repubblica. Scopro adesso che è stato il suo ultimo incarico. Era un uomo eccezionale, che sapeva maneggiare il potere. Sarebbe diventato il successore di Khofi Annan.


Taur Matan Ruak, comandante del Falintil, Xanana Gusmao
e Sergio Vieira de Mello








Voglia di suicidio?

Siete depressi? State accarezzando idee che contemplano rasoi, lamette, barbiturici, corde insaponate, salti dal decimo piano, iscrizioni alla Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno? Passate qualche giorno nel Chocó e la vostra decisione diventerà definitiva.



Il Chocó è lo stato più a nord della costa pacifica colombiana, al confine con Panama. Rocce vulcaniche, spiaggie nere (peggio: marrone scuro), rocce nere, acqua nerastra che non invita al bagno (ah, le acque cristalline dei Caraibi!).
Per completare la scena, piove sempre e il tasso di umidità dell'aria è tale che i vestiti restano perennemente bagnati, le lenzuola alla sera sono umide e andare a letto è una tristezza. Naturalmente non c'è nulla da fare, quindi alle dieci si è già sotto alla zanzariera. Già, la zanzariera: perché con tutta questa umidità le zanzare crescono forti e robuste, e al tramonto attaccano con determinazione feroce, iniettando quantità industriali di plasmodium falciparum (malaria) e febbre gialla.

La domanda è: ma che ci faccio qui?
Già. Me lo sto chiedendo anch'io.







Il Chocò

Il Chocó - lo Stato colombiano più a nord della costa pacifica - è un'Amazzonia dimenticata: non ci sono strade. Le vie di comunicazione sono esclusivamente i fiumi, il mare e il cielo. Una foresta pluviale intricata e oscura copre tutta la regione, dalle montagne fino alla riva del mare. Gli alberi della foresta sono i natos, gli oquendos, i nazarenos, i guayacanes, i grandi jenené da cui pendono i bejucos - le liane- e gli infiniti cespugli del sottobosco. Ci sono scimmie, uccelli di ogni tipo, dai colibrì ai grandi pappagalli - e felini: ocelot, coguari.
Un paradiso per i cimarrones, gli schiavi che scappavano dalle miniere d'oro di cui era ricco il Chocó: ritrovavano l'habitat della loro Africa e si adattavano benissimo, costituendo libere comunità di fuggitivi.



Anche i nomi dei fiumi e delle città suonano africani. Nuquí, Quibdó, Bobará, Bojayá, Nabugá. Gli indigeni sono stati sterminati alla grande - con le armi e coi lavori forzati, com'era costume dell'epoca - dai conquistadores spagnoli, e ora sopravvivono, protetti, in riserve a cui è difficile accedere. Nel Chocó ci sono soprattutto gli Embera.

Il Chocó è nero non solo nelle rocce e nelle spiagge, ma anche nelle facce della gente che lo popola. Gente mite, che passa le ore a chiacchierare in riva al mare e un po' a pescare. Coltivano riso, mais e il resto glielo regala la natura.
Basta stendere la mano per raccogliere un casco di banane o una noce di cocco. Qualche gallina in cortile, un po' di pesce - pardos, agujas, bravos, chernas, albacoras, piccoli tiburones - pescato con l'amo a bordo di instabili barchette scavate in un un tronco, i chingos.



I genitori sono affettuosissimi con i loro bambini, e in genere l'infanzia è abbastanza protetta. I bambini hanno un'attività sessuale molto precoce.
Giocano col sesso come con qualsiasi altro giocattolo, senza sensi di colpa, e in genere a undici - dodici anni, intorno alla pubertà, le bambine hanno i primi rapporti sessuali, di solito con uomini più adulti. Ovvio che molte siano incinte già a tredici, quattordici anni. La coppia non è stabile, è normale che una ragazza abbia tre o quattro figli da altrettanti padri diversi.



Le comunità negre del Pacifico non sono allegre e spumeggianti come i loro cugini della costa caraibica (che hanno spiagge bianche e sole permanente), ma fanno anche loro le loro brave fiestas, che si concludono con fiumi di alcool e risse spaventose, dove ogni tanto ci scappa il morto.

Il Chocó è il dipartimento della Colombia che confina con Panama (Panama stessa era colombiana: gli Stati Uniti cercarono di comprarla per costruirci il Canale, ma trovarono troppo esosi i 10 milioni di dollari richiesti, così trovarono più economico fondare uno Stato fantoccio - che poi gli servì a lungo, fino agli scambi armi-stupefacenti con Cara de Piña).



Termales è il villaggio più vicino al Cantil, a un'ora di cammino per spiagge nere assolutamente deserte. Si chiama così perché c'è una vasca di acqua calda, sulfurea. E' piacevole sedersi in un villaggio, bere una birra e chiacchierare con la gente di nulla, del tempo e del mare, e guardare le onde del Pacifico che si rotolano instancabilmente sulla spiaggia, una dopo l'altra, senza fretta, per l'eternità.








Megaptera

Megaptera significa "Dalle grandi ali". La Megaptera Novaeangliae, o Ballena Yorobada, o Humpback Whale, o semplicemente Yubarta, come la chiamano nel Chocó, vive in Antartide e durante la stagione fredda sale ai Tropici per una sana stagione di sesso. Come i tedeschi a Ibiza.

Sono qui sul belvedere del Cantil, piccolo villaggio ecologico sulla riva del Pacifico (appena sette cabañas) e guardo il mare grigio. Ogni tanto si vedono i soffi, o una balena salta. Allora mettiamo in mare la lancia e corriamo a vederle da vicino.



Il primo giorno ho cercato di fotografarle. Ma mi sono accorto che passavo tutto il tempo a preoccuparmi di otturatori e luci invece che a guardare le balene. E il risultato era miserrimo, neanche lontanamente paragonabile a quelle foto stupende di salti e voli che riescono agli specialisti dopo giorni e giorni passati su uno Zodiac in coda alle balene, in spregio a tutte le norme internazionali di avvicinamento ai cetacei. Così, mi son detto, lasciamo fare le foto a chi le sa fare e godiamoci l'emozione delle balene da vicino. Che poi non è questa gran emozione. Ogni tanto senti un soffio potente, e due o tre bestioni neri escono dal mare a venti metri da te, ti sventolano sotto il naso la pinna dorsale e se ne vanno, assolutamente indifferenti a te che pensi "Ecco, adesso dovrei sentirmi Parte del Gran Mistero di Madre Natura. Ehi, perché non mi sento Parte del Gran Mistero di Madre Natura?"



Il fatto è che le megattere si fanno i fatti loro, bovinamente intente a ingozzarsi di tonnellate di krill e a riprodursi (il pene del Baleno misura un metro e ottanta, ovvio che le ragazze della porta accanto siano interessate). Mica come le Balene grigie, che sono curiose degli umani e si lasciano fare i grattini sotto il barbuzzo. Mi sa che ho sbagliato posto, stagione e specie di cetacei.







Medellin, provincia di Trieste.

Medellin sembra una Milano buttata in mezzo alle montagne. E' linda, ordinata, c'è il metrò, nelle strade del centro si respira un'aria di gente ricca e indaffarata.
Come i milanesi, gli abitanti di Medellin (i "paisa") sono puntuali agli appuntamenti e parlano sempre di lavoro, ma quando è ora si sanno divertire, affollano le sale di rumba e fanno grandi feste.

Uno di loro mi spiega che i paisa nascono muleros: allevavano, vendevano e affittavano muli per queste montagne. Questo ha fatto nascere una tradizione di commercio e industriosità sconosciuta nelle altre zone della Colombia. E anche una grande avidità di denaro: i papà insegnano ai figli: "Figlio mio, fai la plata. Onestamente, se puoi. Ma comunque fai la plata."

Come i milanesi, i paisa sono molto fieri di essere paisa. Si sentono i migliori della Colombia, sono tuttora l'unica città ad avere una metropolitana (soprannominata il Narcométro) e coltivano un sottile disprezzo per i bogotani, accusati di essere molli, politicanti e ladroni. Sì, questo ci ricorda qualcosa.

Ma la cosa più divertente è che i paisa parlano con un accento strascicato sull'ultima sillaba che ricorda fortemente il triestino. Pare quasi si sentirli dire "Ma lascia stare... ma cos' te bazzili.."




<<Torna all'indice