Eccomi qua a Bogotà

Bogotà mi accoglie con una giornata frizzantina di sole, limpidissima: ma le punte delle Ande sono infiocchettate di nuvolette bianche. Fa freddo, siamo a 2600 metri e ci vuole il maglione anche se siamo poco sotto l'Equatore.
All'Opera, il piccolo hotel de charme che ormai è la mia casa a Bogotà, grandi feste. Alfredo, il camerierino azzimato, mi abbraccia, le ragazze mi saltano addosso con baci e abbracci. Sono ovviamente stravolto, ma la melatonina funziona: sono già sintonizzato sull'ora di Bogotà.



Mi dicono che la situazione è più tranquilla, che la nuova presidenza Uribe ha portato più sicurezza: ma allora che ci fanno i soldati con l'elmetto nazista davanti all'albergo? E perché il poliziotto col cane al guinzaglio porta sul giubbotto la scritta "UNIDAD ANTIEXPLOSIVOS"?

Ho chiesto al tassista di passare davanti al Cartucho: metà è stato raso al suolo, ma una metà ancora resiste, coi suoi marginali, i suoi assassini da 250 euro a botta, le sue bambine prostitute, i suoi venditori di basuco, i suoi hoteles de malamuerte.



Faccio un giretto per la Candelaria, con le sue case coloniali e il suo misto di studenti, mendicanti, indios, attori. E' sempre il quartiere più fascinoso di una città altrimenti brutta e americanizzata.

E' un privilegio stare in un paese dove il turista è un 'entità sconosciuta.








Prima sorpresa

Appena arrivato, alla reception mi porgono un biglietto. Ooops! Chi di voi mi segue da tempo si ricorderà di Clemencia Herrera Nemerayema, la leader indigena dell'Amazzonia che incontrai per caso due anni fa su un aereo tra Panama e Cuba. Le avevo spedito diverse email, ma non avevo mai avuto risposta. L'ultima volta le ho scritto solamente: "Sarò a Bogotà dal 17 luglio, all'Hotel la Opera, e mi piacerebbe incontrarti per parlare della situazione indigena." Le avevo incluso la foto della collanina india di semi e bacche rosse che mi aveva regalato, e che avevo tenuto come un dono prezioso.

Nel biglietto c'è scritto: "Sono uno studente indigeno. Clemencia Herrera è fuori Bogotà, ma la incontrerà appena possibile. Nel frattempo mi ha chiesto di mettermi a sua completa disposizione".

Mmm... possibile che le cose comincino già a girare così velocemente?









Un rumore di anfibi militari

Mi sveglia un rumore di anfibi militari, ordini abbaiati. Mi sporgo dal balcone, sotto di me c'è un plotone della Guardia Presidenziale . Altri arrivano a passo svelto, impugnando i Galil che costituirono una delle più grandi truffe degli istraeliani ai colombiani (e uno dei più grossi affari per gli alti ufficiali che trattarono l'acquisto).

Stanno blindando Plaza Bolivar, la più grande della città, quella con la cattredale, il Parlamento il Palazzo di Giustizia e il palazzo dell'Alcalde, il sindaco.C'è una grande manifestazione di ambulanti. Sono disperati perché l'alcalde, Mockus ha deciso di proibire la vendita delle cose povere che si vendono per strada: caramelle, focaccine, carte stradali, lacci, calzini, pennelli, lucido da scarpe, agua aromatica: mezzi di sussistenza minima in un Paese dove la disoccupazione è ormai al 50%.

Mi ci butto in mezzo, sono facce di povera gente, molti indios, molti desplazados che la guerra civile ha portato a Bogotà per sfuggire ai massacri dei paramilitari o alle prepotenze della guerriglia. Molte bocche sdentate: qui se sei povero l'assistenza medica è demandata alle associazioni di carità. Una colonna di manifestanti mi avvolge ridendo con una grande bandiera colombiana, una vecchia india balla come un'ossessa, un predicatore si para di fronte a una colonna di soldati cercando di convincerli a pentirsi e donarsi a Dio.

Arriva anche un gruppo che batte le casseruole, come in Argentina, come in Venezuela. Ma la manifestazione è allegra, ed è bello sentir gridare "El pueblo unido jamás será vencido", davanti alla grande cattedrale eretta dai conquistadores spagnoli. I soldati sembrano tranquilli. Con la guerriglia che insanguina il paese hanno ben altri cazzi che una manifestazione di affamati.









Fallito il tentativo di liberare Ingrid Betancourt

Secondo un periodico brasiliano, un Hercules del governo francese senza contrassegni è atterrato nei giorni scorsi a Manaus (Amazzonia, al confine con la Colombia) all'insaputa del governo Lula. I francesi starebbero negoziando con le FARC la liberazione della 41enne senatrice colombiana del partito Oxigeno, che è anche cittadino francese, sequestrata nel Caguan il 23 febbraio 2002.


Ingrid Betancourt assieme ai comandanti delle FARC Andrés París, Joaquín Gómez, Mariana Páez

A bordo dell'Hercules, un alto funzionario dello staff di Villepin e alcuni ufficiali in borghese. Misterioso il carico dell'aereo, che la polizia di frontiera brasiliana non ha potuto ispezionare perché coperto da immunità diplomatica.

Intanto a Tabatinga, cittadina brasiliana al confine con la colombiana Leticia, Astrid Betancourt, sorella di Ingrid, e Juan Carlos Lecompte, marito della ex candidata, aspettavano la liberazione.

I contatti sembrano, comunque, falliti per un atto di sfiducia delle FARC.

Questo comunque sembra indicare che:

* Ingrid è viva, e probabilmente detenuta in Amazzonia.
* A Leticia qualcosa si sta muovendo.








Soldati in carrozzina

Debbo ammettere che, dopo i discorsi ufficiali roboanti e ampollosi, la sfilata dell'esercito colombiano comincia con un colpo da maestro: in perfetta uniforme sfilano i soldati diventati invalidi in combattimento, preceduti da un tenente che ha perso tutte e due le gambe saltando su una mina. Niente gambe artificiali, nessuna pietà e nessun pudore: un tronco umano nella carrozzina spinta dalla moglie.


In prima fila il portabandiera, tenente Elver Alfonso Rodriguez (Foto Carlos Martinez/ El Tiempo)

Non ho mai visto nulla di simile nelle sfilate italiane, dove gli invalidi semplicemente si nascondono (eppure ne abbiamo avuti, in Libano e in Somalia).

E ricordo la polemica che scoppiò in Inghilterra dopo la guerra delle Falkland, quando ai soldati diventati invalidi in combattimento fu vietato di partecipare alla sfilata della vittoria.

Questi colombiani riescono sempre a sorprendermi.









Festa de la Indipendencia


20 giugno, festa dell'Indipendenza.

La Opera, il mio albergo del cuore, è a solo tre quadras da Palacio de Nariño, il Quirinale colombiano, e a due da Plaza Bolivar, dove ci sono il Parlamento, la Cattedrale e il Palazzo di Giustizia. Alvaro Uribe, il presidente che ha dichiarato guerra senza quartiere al terrorismo (ma sta scendendo a patti coi paramilitari, autori di massacri ferocissimi compiuti con la complicità dell'esercito) cerca di normalizzare la situazione, soprattutto con misure psicologiche, quindi la parata dell'Indipendenza si tiene in Plaza Bolivar, il cuore dello Stato. Ma è proprio l'attacco al Cuore dello Stato che fa più paura: il giorno in cui Uribe fu proclamato presidente, le FARC lo salutarono con una salva di missili diretti verso il palazzo (uno piombò a cento metri da dove sono adesso; un paio finirono fuori bersaglio e le uniche vittime furono tre o quattro disgraziati del Cartucho, comunque desechables - vuoti a perdere: desechable sta scritto sulle bottiglie di plastica della Coca-Cola).



L'accesso alla piazza è ovviamente impossibile, il parcheggio è stato proibito nel raggio di tre chilometri per evitare eventuali carrobombas, è un gran viavai di militari. Passano i gipponi neri blindati coi vetri oscurati e il faretto azzurro che sono le autoblu di qui: il simbolo del potere. Miliardi di pesos sprecati per trasportare, proteggere e nutrire una classe politica arrogante, arruffona e arraffona, che per secoli non ha fatto altro che spogliare questo Paese bellissimo e incredibilmente ricco di risorse naturali, che avrebbe tutti i numeri per dare pace e benessere a tutti.










Indios desplazados.

Son lì, in una stanza spoglia, muti, passivi, piccolini, le facce scure, stretti l'uno all'altro, lo sguardo perso nel vuoto. Puzzano forte. Per terra, su un poncho bianco, un bambino piccolo. Sono indios Muisca. Due famiglie. Si sono rifugiati a Cachivache, gruppo di aiuto ai marginali nel centro di Bogotá. Una delle donne è incinta. Sono scappati dalle loro terre. Il perché non importa, le storie dei desplazados sono tutte uguali. Forse i paramilitari gli hanno bruciato la casa e ammazzato un paio di figli. Forse i guerriglieri gli hanno imposto delle decime che non potevano pagare. Forse si sono trovati tra due fuochi. Forse le terre che coltivavano facevano gola a qualcuno più forte e più armato. Queste storie, la prima volta che le senti, ti sollevano un'indignazione profonda. Alla decima volta ti indigni un po' meno. Alla centesima volta alzi le spalle e ti dici che non ci puoi fare niente, è una storia loro.

La cosa che fa impressione in questi Muisca è il silenzio. Stanno fermi fermi, guardano fisso il pavimento con le spalle un po' incassate come se aspettino che da un momento all'altro gli caschi in testa tutto il palazzo. Anche i bambini stanno fermi e zitti. Perfino il bambino piccolo sul poncho per terra non piange, non ride, non muove un muscolo.



Arriva l'assistente sociale di Cachivache. Parla agli uomini, le donne non capiscono lo spagnolo o sono troppo timide per rispondere. Cerca di capire di cosa hanno bisogno. Distribuisce saponi, asciugamani e rasoi. I Muisca si mettono in fila per la doccia. Gli uomini fanno la guardia davanti alla porta mentre le donne si lavano assieme ai bambini. Vengono da capanne di fango col tetto di paglia e da piccole comunità autosufficienti, rette da secoli da sistemi di tabù e proibizioni controllate dallo sciamano. Chissà con quali occhi guardano Bogotà.



Poi si mangia: grandi piatti di riso e carne, succo di guayabana. Quello che avanza si mette in un sacchetto di plastica per stasera. E finalmente i Muisca, ripuliti e rasati, sorridono timidamente. Non sanno dove dormiranno stanotte, Cachivache fornisce orientamento, a volte cibo e vestiti, ma non posti letto. Dormiranno per strada, sotto la pioggerellina fine che cade su Bogotá, come gli altri due milioni di poveracci che la guerra civile ha scaraventato in città, e di cui, fondamentalmente, non importa un cazzo a nessuno.












Tierradentro.

L'altro giorno ero al Museo dell'Oro, che ha una bella sala dedicata alle civiltà precolombiane (che in Colombia si chiamano, giustamente, precolombine) , e c'era una sezione che, non so perché, mi attirava irresistibilmente: Tierradentro.



Tierradentro, Tierradentro... questa parola misteriosa, affascinante, che sa di Hobbit e di magia, continua a ronzarmi in testa. So che è un parco archeologico, ovviamente del tutto privo di turisti, nella zona di Popayàn. So che ci sono dei bellissimi ipogei, tombe scavate nella roccia. Dev'essere bello potersi avventurare là come i primi archeologi tra le rovine maya, quando ancora intorno alla piramide di Palenque non c'erano i turisti sbragoni con le macchine fotografiche e i baracchini che vendevano hot-dogs e coca-cola, ma solo il soffio del vento e un silenzio magico.

Oggi mi sono imbattuto in un libro, "Tierradentro, territorio mágico" (pr. màhico). L'introduzione è intitolata "Tierradentro, terra de lo profundo".
L'ho preso al volo. Stanotte me lo leggo.








Tierradentro: ci casco ancora.

Ci sono cascato ancora. Passo davanti al Museo de l'Oro, mi infilo dentro. Salgo alla sezione etnografica. Mi fermo di fronte alla riproduzione della tomba di Tierradentro. C'è una guida carina e disponibile (a spiegare, cosa avete pensato, porcaccioni!) e mi racconta con passione di questo popolo estinto (si chiamavano proprio gli Indios Tierradentros) che prima seppellivano i propri morti sottoterra, poi riesumavano le ossa ormai asciugate e le mettevano in questi ipogei (a cui si arrivava attraverso perfette scale a chiocciola) profondi da quattro a dieci metri, decorati con tre colori: nero (la morte) rosso (la vita, il sangue) e bianco (la luce).



Lei ha un po' di sangue indio. Mi dice che da quelle parti, a Sant'Augustin e a Tierradentro, la magia si sente nell'aria, fortissima.








Mi cascasse il naso.

Al Café Pasaje, in Plazoleta del Rosario, con Federico, l'antropologo che dirige Cachivache, Claudia la sua vice e Cielo, la psicologa. Birre, mojitos, nell'aria il profumo del caffè e del tabacco, chiacchiere nell'aria fumosa, l'allegria e le risate dei colombiani che riescono sempre a prendere tutto con leggerezza.
Federico fa:
"Uffa, devo andare qualche giorno nel Cauca per quella comunità indigena, ma da solo non ne ho voglia. E' un mese che rimando questo viaggio..."
Io:
"Beh, andiamoci insieme, no?"
"Davvero ti andrebbe?"
"Ma certo. E' un territorio sicuro?"
"Sicuro sicuro no, è territorio delle FARC ... però viaggiamo per fare lavoro sociale, per aiutare gli indigeni. E poi non siamo bersagli interessanti. Chi vuoi che ci tocchi."
Claudia:
"Sì, Enzo, vai, Federico è la persona giusta. Ha un amore particolare per quella zona perché è là che ha fatto le sue prime ricerche di antropologo! E poi vi vedo così bene, voi due insieme! Sembrate fratelli!"
Io:
"Per me sta bene. Vediamo un po'..."
Tiro fuori la mappa della Colombia: la spieghiamo sul tavolo, cominciamo a seguire le strade, le montagne, i passi, la valle del Cauca, lo Huila coperto di neve. Cosa c'è di più bello di un gruppo di amici che comincia a progettare un viaggio su una mappa, sul tavolo di un caffè?
Claudia indica col dito:
"Ma è fantastico! Fate Manizales, Arauca, poi prendete la Panamericana fino a Cali. Dormite a Cali e il giorno dopo siete nel Muchique... guarda qui: già che ci siete, potreste fare Puerto Tejada, Santander e poi allungare fino a Popayàn. Popayan è una meraviglia, Enzo lo deve vedere, assolutamente."
E Federico:
"Certo, possiamo dormire presso le comunità indigene. Ho ancora tanti amici, là. Stiamo via due-tre giorni e poi torniamo."
Io:
"Ma no, non facciamo una toccata e fuga. Stiamo un pochino. La zona è bellissima, c'è Buenaventura, la Gorgona... Federico, tu hai bisogno di una vacanza. E il buon capo sa delegare, giusto ragazze?"
"Giusto!" in coro.
Federico è tentato:
"Dio, era tanto che avevo voglia di un viaggio così..."
Cielo:
"Sì, sì, Federico, vai, qui pensiamo a tutto noi. E poi scusa, se andate a Popayan non potete fare a meno di arrivare a Sant'Augustin!"
Claudia:
"Giusto! E già che siete a Sant'Augustin, in due ore allungate fino a Tierradentro!"

Ooops!
Mi cascasse il naso.








Tierradentro: non se ne può più.

Sono nella jeep blindata della famosa Signora minuta ed elegante. L'autista del DAS guida a rotta di collo sulla Circumvalár con le sue salite ripide, le discese improvvise, i curvoni, i ponti e i viadotti che la fanno somigliare a una gigantesca pista per le biglie. L'altro agente della scorta tiene pigramente in braccio una Skorpion, la mitraglietta cecoslovacca che piaceva tanto alle Brigate Rosse.

La Signora mi fa: "Senti, se vai nel Cauca debbo assolutamente presentarti un antropologo che vive là, uno studioso che si occupa anche di magia e di astrologia: Mauricio Puerta Restrepo, che ha scritto un libro intitolato..."

"...Tierradentro Territorio Mágico. Lo so, l'ho comprato l'altro giorno!" faccio, ormai rassegnato.

Non se ne può più. Quasi quasi me ne vado al mare.











Le FARC lanciano un appello all'ONU.


Raul Reyes, delegato ai rapporti internazionali delle FARC

Il Segretariato delle FARC ha ufficialmente domandato alle Nazioni Unite di avviare degli incontri per "facilitare la ricerca di una soluzione politica al conflitto sociale ed armato".

La guerriglia ha avanzato tale richiesta in seguito all'offerta, da parte dell'ONU, di collaborare col governo per risolvere i problemi relativi al terrorismo ed al narcotraffico, "nonostante l'organizzazione non abbia citato a riguardo anche le FARC".

Ancora una volta, i ribelli hanno proposto come loro interlocutore Raúl Reyes, già protagonista dei falliti colloqui di pace con l'allora presidente Andreas Pastrana, e candidato anche alle trattative (respinte ancor prima di nascere) con la mediazione dei Paesi sudamericani del "Gruppo di Rio".

Fonti dell'ONU hanno in seguito diffuso un comunicato in cui si è fatto sapere che il Segretario Generale Kofi Annan "è stato informato della domanda delle FARC, e la considera positiva"; inoltre Annan ha offerto la propria collaborazione per eventuali negoziati, dichiarando di essere a disposizione di entrambe le parti.








Una giornata come tante - 33 morti.


Alzabandiera in un campo FARC (foto Ivan Rios)

Giornate di sangue in Colombia: violenti scontri hanno opposto le forze governative ai ribelli delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), provocando almeno 33 morti.

In un primo episodio, sette poliziotti ed un soldato sono stati uccisi nella località di Barroblanco, tra i dipartimenti di Risaralda e Caldas, durante un tentativo di bloccare il sequestro di 15 civili compiuto, secondo l'esercito, dal Fronte 47 delle FARC; poche ore dopo il combattimento, gli ostaggi sono stati rimessi in libertà.


(La foto che vedete qui sopra - terribile nel dolore del bambino che riveste il padre morto sulla barella - è di Abad Colorado, uno dei più grandi fotografi colombiani)

Fonti militari annunciano inoltre la morte di 23 miliziani di quest'ultimo gruppo, avvenuta nel corso di diverse operazioni scattate la scorsa domenica, in occasione del 193esimo anniversario dell'indipendenza.
Le azioni più violente avrebbero avuto luogo nelle aree centrali e sudorientali del Paese, precisamente nelle montagne di Calamar e Guaduas: solo in quest'ultima località, sempre secondo i dispacci ufficiali, 10 guerriglieri avrebbero perso la vita, mentre nella prima le vittime sarebbero 8.

Altri scontri, che avrebbero provocato altri 5 morti, si registrano nei dipartimenti del Meta e del Norte de Santander; inoltre, un soldato sarebbe rimasto ucciso ed altri cinque feriti presso Ortega (Tolima), a causa dell'esplosione di una mina antiuomo.


Manuel Marulanda, detto "Tirofijo" (foto Ivan Rios)

Nella città di Neiva, un'automobile caricata con almeno 30 chilogrammi di esplosivo è scoppiata uccidendo un uomo e una donna che vi si trovavano a bordo; secondo le autorità, le vittime potrebbero essere guerriglieri che stavano trasportando il veicolo in prossimità di un obiettivo; tuttavia, non sarebbe da escludere l'ipotesi che si sia trattato di civili, costretti dalle FARC a fare da "corrieri" all'ordigno, come purtroppo di frequente accade.

Un'altra autobomba è esplosa nel centro di Saravena (Arauca), a pochi giorni di distanza dallo scoppio di un altro ordigno; fortunatamente, non si registrano








Lo sfortunato Hercules francese.


(Nella foto: Ingrid Betancourt tra ufficiali dell'esercito colombiano - © El Tiempo)

Si annoia da matti a Bogotà, dove il suo compito consiste soprattutto nell'andare a ripescare i connazionali che transitano nelle galere colombiane per traffici di cocaina o strani eccessi di valuta. Rimpiange un po' i tempi in cui era un brillante giovane attaché a Londra, a Tokio, a Rio de Janeiro. E' un diplomatico europeo, compassato, affabile e signorile come, giustamente, deve essere un diplomatico.
Seduti su confortevoli divani di cuoio nero, sorseggiando un caffè, le chiacchiere vanno avanti piacevoli. Io gli racconto cosa ho fatto due anni fa in Colombia, lui mi racconta un po' di retroscena sul tentativo di pacificazione tra i paramilitari e il presidente Uribe.

Pare che Uribe stia praticamente sciogliendo un voto ai paramilitari, dopo averli finanziati per anni. Non senza ragioni: suo padre è stato rapito e poi è morto tra le mani delle FARC; una sua cugina è stata rapita e lui stesso è scampato per un pelo a un attentato dei guerriglieri in cui sono rimasti uccisi tutti gli altri occuopanti dell'auto. Come dire: ha visto la morte in faccia un po' di volte e ora è leggermente incazzato con le FARC. Gli dareste torto, voi?
Ma il pettegolezzo più succoso arriva quando gli chiedo dell'Hercules francese atterrato in territorio brasiliano. Insomma, pare che i francesi abbiano preso il rapimento di Ingrid Betancourt come un affronto personale. Di più: Ingrid è stata allieva (e forse qualcosa di più, commenta malizioso il mio diplomatico alzando con intenzione un sopracciglio in un'occhiata obliqua) di Dominique de Villepin, il fascinoso Ministro degli esteri francese ( e gran figazzeur), che ha deciso di far di tutto per liberarla.



Ingrid sarebbe viva, anche se molto malata (da quelle parti malaria, febbre gialla e dengue emorragico sono malattie endemiche). L'Hercules avrebbe contenuto materiale da guerra molto sofisticato: forse visori a infrarossi, forse apparati di comunicazione criptati, forse addirittura missili portatili terra-aria. A chi erano destinate quelle armi? E in cambio di cosa? O, piuttosto: di chi? Perché i francesi hanno rifiutato le ispezioni brasiliane col pretesto dell'immunità diplomatica?

Pare che Lula, che era in viaggio in Europa, si sia incazzato terribilmente e abbia ordinato l'immediata partenza dell'aereo ( privo, peraltro, di contrassegni), pena un attacco delle teste di cuoio brasiliane. Questo, e non la diffidenza delle FARC, avrebbe fatto fallire la liberazione di Ingrid Betancourt.

Insomma, dice il mio uomo, i francesi ne hanno fatta un'altra delle loro: in un attacco di grandeur hanno completamente ignorato i governi colombiano e brasiliano e avrebbero tentato un'azione da commandos per liberare la Betancourt. Un'azione politicamente gravissima, fatta senza consultare gli alleati europei.



E, ciliegina sulla torta, avete fatto caso alle date? L'azione si è svolta tra il 9 e il 13 luglio: in tempo per liberare Ingrid il 14 luglio, la festa dell'indipendenza francese. Per de Villepin, sarebbe stato un colpo mediatico d'eccezione - magari la prossima presidenza della Repubblica.








Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero.

Ha una facciaccia spiritata alla Klaus Kinski. Mi lancia un'occhiata di odio quando si accorge che mi sono fermato a fotografarlo mentre, nella notte, razzola tra la spazzatura. Per un attimo ho paura che tiri fuori un coltello o mi prenda a sassate, ho la tentazione di scappare. Invece tiro un respiro profondo, gli faccio un sorriso, gli dico:



"Hola, amigo! Como se llama?" e lui mi fa:
"Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, señor! Puede colaborarme?"
"Seguro, Manuel! Me permite una foto?"
"Seguro, señor! Si usted colabora, Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, le permite todas las fotos que quiere!
"Bueno! Que está haciendo?"
"Selecciono el carton! Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, señor!"
"Qué bueno. Y donde vive usted?"
"Al Cartucho! Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, señor, vive al Cartucho! Para servirla!"



Un cane bianco gli si avvicina, gli dà una musata affettuosa come se gli chiedesse chi è questo qua e che sta facendo con questa scatoletta che sputa lampi. Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, lo accarezza.

"Su perro?"
"Seguro, señor, mi perrito! Se llama Blanco!"
"Manuel, tiene familia?"
"Cinco hijos, señor, por gracia de Dios!"
"Gracias, Manuel!"
gli allungo qualche biglietto di banca. La faccia alla Klaus Kinski si allarga in un sorriso deliziato:
"Gracias, señor! Dios bendiga! Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero, la agradezca muchisimo!"



Viene verso di me emanando una zaffatona acida di alcol, piscio e sudore stantio, mi dà una mano sporchissima che stringo con calore. E' ovvio che i miei soldi finiranno in aguardiente o basuco, ma chi se ne fotte, è la sua vita, e non ho nessun elemento per giudicarlo o per dire che il mio modo di vivere sia superiore o più giusto di quello di Manuel Luìs Sanchez Rincón, cartonero.








El Cuqui.

E' un bell'uomo dagli occhi chiari. E' argentino, e ha il miglior ristorante di carne di Bogotà: Mi Viejo, alla Candelaria. Serve bistecche, lombi e filetti tenerissimi, ben rosolati sulla brace. E' un ex calciatore: si chiama Edgardo Lopez, ma quando giocava nel Bogotà tutti lo chiamavano "El Cuqui", e il soprannome gli è rimasto. Era ala sinistra, N° 11, "ai tempi in cui si andava all'attacco in cinque", e "mas con justeza que con dureza".

Mi racconta degli Anni Cinquanta, quando all'improvviso a Bogotá nacquero quasi contemporaneamente ben tre squadre, il "Santa Fé", "El Milionario" e "La Universidad". Ma mancavono i giocatori, e i giocatori argentini e brasiliani venivano disputati a suon di pesos. Mi parla di grandi annate, di grandi giocatori, Sivori, Di Stefano, Cossi, Bini. Mi racconta di quando scoppiò il Bogotazo, la rivolta popolare per l'assassinio di Jorge Eliécer Gaitán, con centinaia di morti, e della partita di coppa che contribuì a sopire gli animi: un po' come da noi la vittoria di Coppi al Tour de France dopo l'attentato a Togliatti.

Poi arrivarono i narcos a impadronirsi delle squadre. E il gioco si avvelenò. I narcos erano gente dura e violenta, spesso analfabeti intelligentissimi venuti su nei barrios sul filo dei pugni e del coltello. I giocatori venivano cacciati senza stipendo se non vincevano. Gli arbitri venivano minacciati di morte. Un portiere della Nazionale fu ammazzato perché non era riuscito a parare un rigore.

El Cuqui si stufò presto - lui, abituato a un calcio da gentiluomini - di questo andazzo da bestie. Si ricordò i trucchi della parrilla che gli aveva insegnato il padre, un gaucho molto povero e molto bravo a cucinare la carne che viveva nella pampa fuori Buenos Aires (350 chilometri, una sciocchezza per la pampa argentina). Aprì il primo ristorante di carne argentina di Bogotà, che si chiamava Corriente 248 (il tango "A media luz" comincia appunto così: "Corriente 248, segundo piso, ascensor.") Poi fu la volta di "Pacho Parrilla" e infine di "Mi Viejo".

El Cuqui si dilunga con passione sulla carne:
"La carne la capisci a colpo d'occhio, il colore del grasso, la marezzatura, lo spessore. La tocchi, la accarezzi e ti accorgi subito se è di vacca vecchia, di vacca giovane o di novillo. Qui serviamo solo carne di novillo. Specialmente quel muscolo tra il collo e la testa, che i colombiani non sanno tagliare. Per questo la loro carne è dura e tigliosa. E poi, è fondamentale la frollatura. Noi la facciamo maturare in frigorifero, tre, quattro giorni, finché non è ben frollata. Son lo pequeños detailles que hacen las grandes cosas".

Quanto me encanta ascoltare la gente che parla con passione del proprio lavoro. E mi spiace anche un po' di non capire niente di calcio. Questa chiacchierata sarebbe piaciuta a mio fratello Sandro: gli avrebbe dato gusto conoscere El Cuqui, e restare con lui a parlare fino a notte alta di parate, centrattacchi e rigori.








Piccole godurie.

Ahhhh... dopo le corse di stamattina, un'intervista potente data in una casa bellissima a picco su Bogotà, la selezione veloce e furibonda delle fotografie sul computer mentre il taxi correva a rompicollo attraverso la pioggia di Bogo, finalmente, inviate le foto, un piccolo barbecue e la goduria infinita di una birra ghiacciata.

Mettetevi comodi, che adesso vi racconto.








Juan Carlos Lecompte: dieci giorni nella giungla.



Juan Carlos Lecompte è svelto, magro, elegante, ironico. Ha gli occhi rossi e il viso affilato. E' appena tornato da dieci giorni di giungla amazzonica dove ha sperato di ritrovare la moglie, Ingrid Betancourt, parlamentare colombiana, candidata alla presidenza, ormai da un anno e mezzo nelle mani delle FARC e più volte data per morta.
E' una strana storia, in cui si mescolano servizi segreti, governo francese, guerriglieri, CIA, la Polícia Federal Brasileira (il loro FBI) e una misteriosa manona che pare aver fatto di tutto per far fallire la riconsegna della parlamentare colombiana.
"Juan Carlos, perché il governo francese si sta impegnando così allo spasimo per la liberazione di Ingrid?"
"Perché i francesi sono una nazione tradizionalmente umanitaria, e si stanno impegnando per la liberazione di tutti gli ostaggi in mano a tutte le guerriglie."



Mi metto a ridere:
"Certo, certo. Il fatto che il Ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin sia stato il maestro di Ingrid all'Università, e suo grandissimo amico personale, non c'entra niente?"
Mi fa un ghigno in risposta: ci siamo capiti al volo.
"Beh, ovvio. Ma io non ne so nulla. I contatti con il governo francese li tiene mia cognata Astrid, la sorella di ingrid."
"Certo, certo. Come no? Dai, raccontami cosa è successo"
"Da certi contatti che avevamo, a un certo punto ci è stato comunicato che Ingrid sarebbe stata liberata nella zona di Leticia, uno sperone di Colombia sul Rio delle Amazzoni che si infila proprio al confine tra il Brasile e il Perù. Praticamente è una cittadina divisa fra tre stati: la parte colombiana si chiama Leticia, la parte brasiliana Tabatinga e quella peruviana Ramon Castillo. In certe strade a destra è Colombia e a sinistra Brasile o Perù. C'è perfino un bar dove puoi scegliere se bere la tua birra in Colombia o in Brasile."

"E poi?"
"Poi il contatto delle FARC ci ha comunicato di andare a prendere Ingrid a Santa Antônio do Içà, in territorio brasiliano. Abbiamo deciso che Astrid sarebbe rimasta a Leticia e io sarei andato a Santa Antônio."
"Avevi il visto brasiliano?"
"Neanche il passaporto, e nemmeno le vaccinazioni. Ho fatto due passi ed ero già in Brasile."
"

E poi?"
"E poi è scoppiato il bordello. Sono arrivati due jet militari che sono passati sopra le nostre teste a venti metri, son tornati indietro e sono ripassati radenti. Poi sono atterrati due elicotteri da trasporto dell'esercito brasiliano che hanno scaricato trenta soldati. Immaginati se c'era qualcuno delle FARC che, com'era probabile, ci controllava: è scappato a rotta di collo."


Frame del video inviato dalle FARC nell'aprile del 2002 come prova che Ingrid e la sua segretaria di campagna, Marta Rojas, erano ancora vive. Da quel momento non ci sono più state prove di esistenza in vita. (© FARC-EP)

Cos'era successo? Semplice. Mentre la famiglia non ne sapeva nulla, tra Francia e Brasile era scoppiato un incidente diplomatico: un Hercules C-130 partito dalla base militare francese di Evreux e diretto alla Cayenna, nella Guyana francese, chiede di poter atterrare a Manaus per un guasto. A bordo dell'aereo, 5 uomini di equipaggio e 11 passeggeri, muniti di passaporti diplomatici, tra cui Pierre Henri Guignard, (capo di gabinetto di Dominique de Villepin, specialista dell'America Latina) e altri che, dal taglio di capelli e dai modi bruschi ed efficienti, hanno tutta l'aria di essere militari della Legione Straniera. I francesi ottengono un permesso provvisorio di dieci giorni per la riparazione dell'aereo e si stabiliscono all'Hotel Tropical di Manaus.



Lì, secondo il giornale di Sao Pablo "Carta Capital", si aggregano al gruppo il secondo segretario dell'Ambasciata di Francia in Brasilia, Marc Siegfried Efchin, e il console onorario di Francia a Manaus, Daniel Adolphe Rosenthal.

Poi quattro dei francesi (apparentemente i militari) noleggiano un aereo da turismo e volano fino a Sâo Paulo de Olivença, a 973 chilometri da Manaus, e a 150 chilometri dalla frontiera con la Colombia. Durante il volo uno di loro dice al pilota, tale Cleiton, che avrebbero fatto ritorno a Manaus il giorno dopo, con quattro passeggeri in più.

Però non succede nulla. Il giorno dopo i francesi ripartono, lasciando al parroco della cittadina amazzonica, Pedro Cesar de Amaral Vieira, un biglietto per le FARC: "Siamo stati qui ma nessuno si è fatto vivo. Torniamo a Manaus. Stiamo all' Hotel Tropical".



"E lì scoppiò il bordello" continua Juan Carlos "Mentre i francesi facevano il loro lavoro e i brasiliani se ne stavano tranquilli, qualche manona ha fatto girare una foto dell'Hercules tra i giornalisti brasiliani, insinuando il sospetto che fosse carico di armi per le FARC. La notizia è apparsa su "Carta Capital", e allora le autorità brasiliane sono state costrette a chiedere un'ispezione dell'aereo."
"Di chi era questa manona?"
"E che ne so, io? So solo che mi sono trovato circondato dall'esercito brasiliano, immigrato clandestino senza passaporto e senza nemmeno le vaccinazioni prescritte."
"E poi?"
"Poi per fortuna è arrivata la Polícia Federal. Il loro comandante è stato squisito, ha ascoltato le mie ragioni e ha deciso, in tutta autonomia, che per motivi umanitari era giusto che provassi a liberare mia moglie."
"Intanto, i francesi sono stati "invitati" ad andarsene. L'Hercules è decollato vuoto."
"Già. Io sono stato aiutato moltissimo dai federali brasiliani. Il loro comandante ha trovato un missionario battista o evangelico, non so più, che ha un idrovolante. Gli ha fatto il pieno con la sua benzina, mi ha dato un GPS e un telefono satellitare e gli ha chiesto di portarmi a Santa Antônio do Içà."


1) Leticia, Amazzoni: dove si incontrano Colombia, Brasile e Perù.

" E dov'è?"
"In culo al mondo, sul Rio delle Amazzoni. Due ore di volo su questo mare verde, infinito, impressionante. Santa Antonio è un buco di posto. Guarda, credo di non aver mai visto tanta miseria. Orribile. Non hanno niente, nemmeno le fogne. La merda corre in dei canaletti in mezzo alla strada. Ho mangiato delle poltiglie immonde, riso e fagioli stracotti. Sono poveri come topi di fiume, non hanno niente, niente!"
"E lì hai aspettato il contatto con le FARC."
"Certo, speravo che mi restituissero Ingrid. Sono rimasto dieci giorni, ma non si sono fatti vivi. Ovvio, erano spaventati da tutto il casino che è scoppiato. Nel frattempo mi è preso di tutto, la diarrea, i pidocchi, le zanzare che mi mangiavano. Meno male che un missionario mi ha dato l'Imodium. Fantastico, ha stoppato tutto. Alla fine, l'ultima sera, col satellitare ho telefonato al comandante dei Federali. Mi detto di cercare una radura larga almeno cinquanta metri - non è mica facile, nella foresta amazzonica - e di calcolare le coordinate col GPS. Ho trovato la radura, un pezzetto di selva che gli indigeni avevano disboscato per coltivarci i fagioli. Ho preso le coordinate, ho richiamato e mi hanno detto che la mattina seguente sarebbero venuti a prendermi. Ho dormito in una specie di capanna che gli indigeni avevano abbandonato, le zanzare mi hanno mangiato tutta la notte. Poi alla mattina, appena chiaro, ho sentito un flap flap flap: un elicottero è sceso dal cielo in mezzo agli alberi. Mi dispiace, abbiamo schiacciato un po' di fagioli degli indigeni, ma che potevo fare? Ero stravolto, affamato, allucinato, forse avevo anche qualche linea di febbre: mi pareva di essere in un film. A bordo c'era proprio lui, il comandante dei Federali. Una persona squista. Mi hanno caricato a bordo e mi hanno riportato a Leticia. E qua stiamo. Senza Ingrid."


2) L'itinerario di Juan Carlos Lecompte alla ricerca della moglie.

"Torniamo alla manona che ha mandato in giro la foto dell'Hercules. Secondo te di chi era?"
"Vallo a sapere. Molti giornalisti brasiliani hanno rifiutato di pubblicare la notizia perché, giustamente, si trattava di un caso umanitario ed era chiaro che avrebbero messo in pericolo la liberazione di Ingrid. Ma alla fine l'hanno trovato, quello che voleva fare lo scoop."
"Però francesi hanno rifiutato ai brasiliano l'accesso all'aereo, dicendo che si trattava di area protetta dal segreto diplomatico. Perché?"



"Questo bisognerebbe chiederlo a loro, io non lo so."
"Dai, Juan Carlos... secondo te di chi era la manona?"
Mi guarda, con la faccia ironica:
"Ah, io non lo so. So solo che era una foto satellitare. E chi possiede i satelliti spia? E chi aveva interesse a rompere le uova nel paniere a de Villepin?"
" I colombiani non direi... sono gli Stati Uniti che hanno i satelliti..."
"Già..."
"E de Villepin si è opposto con molta fermezza ai bombardamenti sull'Irak..."
"Esatto."
"Vuoi dire che è stata una manovra per far pagare a de Villepin la sua posizione sull'Irak?"
"Questo l'hai detto tu, che sei straniero e non corri alcun rischio. Io dico solo che de Villepin di nemici ne ha parecchi: in Francia e fuori."
"Tra l'altro nelle mani delle FARC ci sono tre piloti americani abbattuti mentre sorvolavano le zone della guerriglia."
"Già." Adesso è amaro: "E ti pare proponibile che i francesi riescano a liberare un ostaggio mentre gli americani non ci riescono? Sarebbe una figuraccia, non ti pare?"
"Quindi tu dici che gli americani hanno fatto fallire apposta la liberazione di Ingrid?"
"Ripeto: io non dico niente. Ma il discorso ha una sua logica, non credi?"
"Ingrid è stata spesso data per malata e addirittura per morta. Avete una prova della sua esistenza in vita?"
"No. Purtroppo no."

L'ambasciatore francese a Bogotá, Daniel Parfait, ha smentito qualsiasi trattativa diretta tra il governo francese e le FARC. All'inizio aveva smentito anche qualsiasi rapporto tra l'Hercules e Betancourt, ma alla fine ha dovuto ammettere che l'aereo "era in missione umanitaria".

"Abbiamo convocato l'ambasciatore di Francia e gli abbiamo espresso il nostro grave disappunto in relazione alla situazione che si è venuta a creare:" ha dichiarato, visibilmente irritato, al Correio Braziliense, il ministro degli esteri brasiliano, Celso Amorim.

Ma un diplomatico europeo ci dà una visione un po' più distaccata. A sentir lui, pare che i francesi abbiano preso il rapimento di Ingrid Betancourt come un affronto personale, e che de Villepin abbia deciso di far di tutto per liberarla. In effetti, negli ultimi mesi il Ministero degli Esteri francese ha sviluppato una raffica di iniziative senza precedenti per liberare l'ex candidata alla presidenza della Colombia.
Cosa conteneva l'Hercules? I francesi dicono (ora) che era un aereo carico di medicinali, in missione umanitaria. Ma l'ipotesi che gira a Bogotà è molto più grave. L'Hercules avrebbe contenuto materiale da guerra sofisticato: forse visori a infrarossi, forse apparati di comunicazione criptati, forse addirittura missili portatili terra-aria. A chi erano destinate quelle armi? E in cambio di cosa? O, piuttosto: di chi? Perché i francesi hanno rifiutato le ispezioni brasiliane col pretesto dell'immunità diplomatica, se l'aereo trasportava solo medicinali?

Insomma, dice il diplomatico, i francesi ne hanno fatta un'altra delle loro: in un attacco di grandeur hanno completamente ignorato i governi della Colombia e del Brasile tentando un'azione da commandos per liberare la Betancourt, e trattando direttamente con uno dei gruppi considerati terroristi. Un'azione politicamente gravissima, fatta senza consultare gli alleati europei.



Pare che Lula, che in quei giorni era a Londra, si sia arrabbiato terribilmente e abbia ordinato l'immediato decollo dell'aereo, pena un attacco delle teste di cuoio brasiliane. Lo scoop del giornale di Sao Paulo avrebbe fatto fallire la liberazione di Ingrid Betancourt. E forse anche le ambizioni di de Villepin, che dalla liberazione dell'amica avrebbe riscosso un dividendo mediatico di valore incalcolabile: tutta la Francia segue con attenzione il rapimento della propria connazionale, eroina di battaglie civili e protagonista di una lotta dura contro la corruzione in Colombia.

Intanto di Ingrid Betancourt, birillo inerme in questi scontri tra grandi potenze, si sono perse nuovamente le tracce, e la famiglia dispera di rivederla in vita.








Festa peruana.

E' l'anniversario dell'Indipendenza del Perù. Mi invitano a una festa dell'ambasciata in Colombia. Lo stile è cambiato dagli anni della dittatura, l'ambasciatore porta i saluti del presidente campesino, Toledo, a tutti i peruviani dispersi nel mondo, ringraziandoli per l'aiuto che danno all'economia.

Nel pomeriggio vengo invitato a casa di peruviani e ascolto affascinato Gonzálo Fernandez, giornalista e storico, che discute con Leonídas Lopez "El Inti" delle dodici dinastie peruviane, e se l'ultimo imperatore sia stato Huascar o Hatahualpa, o piottosto Huaynacapak, l'ultimo a ricevere dagli sciamani la borcha che lo incoronava ufficialmente Imperatore davanti agli dei.

"El Inti" ha una faccia che sembra scolpita nella quercia, parla Kechua (ha imparato lo spagnolo solo a otto anni) ed era ingegnere elettrico: mi racconta di quando stava per morire nel deserto e una luce misteriosa gli mostrò la strada - e nel frattempo la moglie sognava lui morente racchiuso in un globo di luce. Magie inca, chissà. Suo figlio, Federico, è stato allevato a testi di matematica e antiche leggende Kechua, a Mozart e guáinos peruanos, canzoni piene di nostalgia struggente per Pachamama, la madre terra: il pianeta ma anche il terreno che dà i fagioli, la coca e le quattrocento varietà di patata che si coltivano in Perù e soprattutto il Choc Atl, il cibo degli dei: il cioccolato.

Le chiacchiere corrono fluide e fascinose: ascoltiamo i guáinos struggenti e beviamo pisco lemón - acquavite di mais con lime, chiara d'uovo e cannella - finché non arriva la notte.


Leonídas Lopes, "El Inti", e Gonzálo Fernandez








El Cura y Tirofijo.


(Manuel Marulanda Velez, detto Tirofijo. Foto di Ivan Rios)

E' un ometto piccino, calvo, occhialuto, ma dietro le lenti spesse gli occhi capiscono in profondità. Nel suo ufficio piacevolmente semplice, libri e oggetti amati: sculture indigene, una scacchiera, una bottiglia di aguardiente e una bandierina di Harvard, dove si è laureato in sociologia.

E' un prete. Ha lavorato dieci anni nel Caguan. E' di Medellin, come Tirofijo. E conosce molto bene il comandante guerrigliero: compiono gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio.
Come molti preti di frontiera è stato vicino alla guerriglia e alla povera gente. Ora è dovuto scappare, perché cominciava a correre un rischio molto serio e molto concreto.
Gli chiedo di Tirofijo.

"Tirofijo, Tirofijo ..." medita. "Tirofijo è un campesino, una persona fondamentalmente onesta, che desidera la pace. Ma che ha dentro anche tanta rabbia, una rabbia che non ha metabolizzato, come un veleno che ormai lo ha invaso e che invade tutta la sua vita. Molti hanno paura di Tirofijo. Ma io di lui ricordo un momento molto tenero.


(Manuel Marulanda Velez, detto Tirofijo. Foto di Ivan Rios)

Qualche mese prima di un compleanno, mi mandò a chiamare. E, per la prima volta, non usò il dipregiativo "cura" (prete) ma mi chiamò per nome.
"Voglio che passiamo il compleanno insieme, amico mio" mi disse con la sua voce roca e terrosa. "E da te voglio un regalo speciale."
"Che cosa vuoi, Manuel?"
"Muchacho relleno".


(Noor, regina di Giordania, con Raul Reyes e Tirofijo. Foto di Ivan Rios)

E' un tipico piatto paisa, di Medellin. Il muchacho è un muscolo della coscia del bue che pesa 3- 4 chili: lo si apre, lo si riempe con patate, fagioli, cipolle, carote e aromi e lo si lascia cuocere lentamente. Diventa morbidissimo. Poi lo si taglia a fette.

Lo feci preparare dalle donne della parrocchia e il giorno del compleanno glielo portai. Tirofijo ormai è vecchio, era tanto che non mangiava muchacho relleno. Era commosso nel sentire di nuovo i sapori della nostra infanzia. Così mi ha messo la mano sulla spalla, poi ci siamo abbracciati - lui così grande, io così piccino - e ci siamo augurati "Feliz cumpleaños".
Allora io gli dissi:
"Manuel, quando eri un buon cattolico..."
"Come!? Io sono ancora un buon cattolico!"
"Ah, sì? E allora, te lo ricordi cosa si canta il tredici maggio?"
Tutti i comandanti lo guardavano, perplessi. L'omone con l'asciugamano sulla spalla della mimetica cominciò a cantare, col suo vocione da rospo:
"El treze de mayo la Virgen Maria... bajo de los cielos a Coba de Iria..."
I comandanti si guardarono stupiti. Di Tirofijo conoscevano soltanto l'ira cupa e gli ordini dati con una voce bassa che non ammetteva repliche: non lo avevano mai sentito cantare.

Io ero commosso."









Elaborare la rabbia.


Botero: Ritratto di Tirofijo (Museo Botero, Bogotà)

"Vedi" mi dice el cura "Il grande problema della Colombia è la rabbia che tanti si portano dentro. Persone che hanno visto ammazzare il padre, i fratelli, le madri. Si portano dentro una rabbia terribile, che li acceca e li spinge a perpetuare qusta catena di violenze che sembra inarrestabile. La gente è violenta perché non riesce ad elaborare la rabbia.

Pochi sanno che il miglior regalo che uno possa fare a sé stesso è perdonare.

Noi stiamo lavorando perché i colombiani imparino a elaborare la rabbia, a perdonare e a perdonarsi. Stiamo cercando di avviare un grande processo di riconciliazione.

Tutte le grandi saggezze - la cattolica come l'induista, l'ebraica come la musulmana - hanno un tema chiave: quello della riconciliazione.
Dio è padre e madre allo stesso tempo, e una religione - qualsiasi religione - è definibile in due sole parole: compassione e tenerezza. Tutto il resto sono orpelli."

Il mio cura laureato ad Harvard: vorrei farlo conoscere a certi monsignori di curia che infestano il Vaticano &endash; e le anime dei fedeli.








Verso Tierradentro!



Finalmente Federico ha spianato i problemi che hanno fatto slittare di giorno in giorno la partenza. Abbiamo stabilito l'itinerario. Abbiamo comprato provviste e caricato la sua jeep Chevrolet. Domattina si parte.

Faremo Bogotà, Ibague, attraverseremo la Cordillera Central, Armenia, poi a Zarzal prenderemo la Panamericana fino a Cali. Dormiremo a Cali, poi andremo verso le tribù dell'interno. Ci occuperemo dei problemi degli indigeni desplazados in seguito a una guerra civile di cui si parla fin troppo poco, e anche di particolari iniziative di pace che stanno nascendo spontanee tra gli indigeni, schiacciati nei massacri tra paramilitari e guerriglia.

L'Ambasciatore Francesco Peano, persona deliziosa, mi ha detto, perplesso: "Cauca? Mmm... stia attento. Vada solo se è molto ben accompagnato."
Finito il lavoro sociale di Federico, faremo un po' i turisti: Popayan, Sant'Augustin (abbiamo già appuntamento con il direttore del Parco Archeologico), il Nevado del Huila e finalmente Tierradentro. Posti magici, sciamanici. Chissà cosa ci aspetta. Di certo l'inatteso.

Non potrò comunicare per una settimana circa. Ma tanto anche voi andrete in vacanza: posto in fretta le ultime mail, ci sentiamo al mio ritorno. Un abbraccio a tutti voi che continuate a leggermi.



Anche oggi, sul Tiempo, brevi trafiletti in settima e nona pagina riferiscono di sparatorie e qualche morto nella zona di Cali.
Il Cauca ci accoglie come si deve: coi fuochi d'artificio.

A me piace molto un proverbio colombiano che dice: "Qui tiene miedo de la muerte, tiene miedo de la vida." (*)


(*) miedo = paura





Una gustosa anteprima.

Ci siamo fermati da un missionario e - incredibile - aveva una connessione Internet. Questo pezzo l'ho scritto per la strada tra i balzelloni della jeep.

Santa Antônio do Içà, è un grumo di capanne e baracche sul Rio delle Amazzoni, un villaggio di miseria senza fogne, i cui abitanti sono poveri come topi di fiume. Che ci fa un giovanotto evidentemente urbano, elegantemente vestito di nero, sul molo sudicio di fango e di nafta, scrutando le rive e masticandosi con ansia il labbro inferiore? Ovvio.
Aspetta la moglie rapita più di un anno prima dalle FARC, Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, l'esercito guerrigliero più potente del mondo.

L'uomo vestito di nero si chiama Juan Carlos Lecompte, ed è il marito di Ingrid Betancourt, la coraggiosa parlamentare colombiana di cittadinanza francese che ha scritto il libro "Forse mi uccideranno domani", famosa per aver fondato il partito "Oxigeno verde" contro la corruzione, per aver distribuito preservativi agli angoli delle strade di Bogotà e soprattutto per essere stata rapita dai guerriglieri a cui si era consegnata spontaneamente durante la sua sfortunata campagna per la presidenza della Repubblica di Colombia.

Qualche giorno prima Juan Carlos è stato contattato direttamente dal Presidente della Colombia Uribe: "Lecompte, c'è un campesino che ha da raccontare una strana storia. Venga a Palacio de Nariño (il Quirinale colombiano).

Il campesino viene dal Putumayo, una regione completamente nelle mani delle FARC che confina con l'Amazzonia: è semianalfabeta ma ha buona memoria.
Racconta di essere stato convocato da un comandante delle FARC che gli ha detto di andare dal capo della polizia locale con una frase molto semplice, che continua a ripetere come una litania: "Portatemi da Astrid Betancourt a Bogotá. Le FARC vogliono liberare la sorella: i suoi familiari debbono andare a Leticia all'Hotel Frontera e lì aspettare ordini."
Nel giro di ventiquattr'ore, su un Falcon della Forza Aerea Colombiana, il campesino è stato sbalzato dai suoi buoi e dalle sue pianticelle di coca fino al centro del potere di Bogotà, sempre ripetendo la sua litania.
Ventiquattr'ore dopo Astrid e Juan Carlos erano già all'Hotel Frontera.

Qui le cose si confondono un po', perché nessuno vuol far nomi e circostanze precise: con le FARC si rischia la pelle (ma anche con l'esercito e i paramilitari: la Colombia è un posto fatto così). Fatto sta che, mentre Astrid resta in attesa all'Hotel Frontera, Juan Carlos entra illegalmente in Brasile - senza passaporto, senza visto, senza certificato di vaccinazione contro la febbre gialla - e noleggia una lancia a motore per discendere il Rio delle Amazzoni.

Ma, mentre sta guardando con leggero disgusto le casette basse di Sâo Paulo de Olivença, immerse nel verde della giungla, il frusciar del vento e il canto dei pappagalli vengono spezzati dal frastuono di due jet militari che passano bassissimi sulla sua lancia ("meno di venti metri" racconta), fanno un giro e ripassano: ce l'hanno proprio con lui.

Nel giro di venti minuti si scatena il bordello: arrivano due elicotteri pesanti da trasporto truppe che costringono la lancia ad attraccare a Sâo Paulo. Mentre i soldati circondano il porto, un capitano dai modi bruschi ferma Lecompte e gli chiede i documenti. Lui non li ha, è spaventato, non capisce: tanto dispiego di mezzi per un clandestino colombiano in Brasile?

Per fortuna arriva un piccolo elicottero della Polícia Nacional, la polizia federale brasiliana. Ne scende un ufficiale di alto livello (Lecompte non dà particolari) e gli spiega quello che è successo. E improvvisamente la storia, da operazione semiprivata e riservata di riscatto, assume gli aspetti dell'intrigo internazionale.

Cos'è successo? Semplice. Mentre la famiglia non ne sa nulla, tra Francia e Brasile è scoppiato un incidente diplomatico: un Hercules C-130 partito dalla base militare francese di Evreux e diretto alla Cayenna, nella Guyana francese, chiede di poter atterrare a Manaus per un guasto. A bordo dell'aereo ci sono 5 uomini di equipaggio e 11 passeggeri, muniti di passaporti diplomatici, tra cui Pierre Henri Guignard, (capo di gabinetto di Dominique de Villepin, specialista dell'America Latina) e altri che, dal taglio di capelli e dai modi bruschi ed efficienti, hanno tutta l'aria di essere militari della Legione Straniera. I francesi ottengono un permesso provvisorio di dieci giorni per la riparazione dell'aereo e si stabiliscono all'Hotel Tropical di Manaus.

Lì, secondo il giornale di Sao Pablo "Carta Capital", si aggregano al gruppo il secondo segretario dell'Ambasciata di Francia in Brasilia, Marc Siegfried Efchin, e il console onorario di Francia a Manaus, Daniel Adolphe Rosenthal.

Poi quattro dei francesi (apparentemente i militari) noleggiano un aereo da turismo e volano fino a Sâo Paulo de Olivença, a 973 chilometri da Manaus, e a 150 chilometri dalla frontiera con la Colombia. Durante il volo uno di loro dice al pilota, tale Cleiton, che avrebbero fatto ritorno a Manaus il giorno dopo, con quattro passeggeri in più.
Però non succede nulla. Il giorno dopo i francesi ripartono, lasciando al parroco della cittadina amazzonica, Pedro Cesar de Amaral Vieira, un biglietto per le FARC: "Siamo stati qui ma nessuno si è fatto vivo.
Torniamo a Manaus. Stiamo all' Hotel Tropical".

L'operazione - un'operazione da corpi d'élite, probabilmente Legione Straniera - era riservatissima, non ne era al corrente nemmeno Jacques Chirac. Nemmeno il presidente Brasiliano Lula da Silva. Ma qualche manina (o manona) ha fatto girare una foto dell'Hercules tra i giornalisti brasiliani, insinuando il sospetto che fosse carico di armi per le FARC. Molti giornalisti, per ragioni umanitarie, hanno rifiutato di publicare la foto dell'Hercules. Ma alla fine qualcuno ha ceduto allo scoop (o ad altre motivazioni?) e la notizia è apparsa su "Carta Capital", un settimanale brasiliano a tinte forti. Allora le autorità brasiliane sono costrette a chiedere un'ispezione dell'aereo. I francesi rifiutano, adducendo il fatto che l'aereo è protetto dall'immunità diplomatica. I brasiliani li espellono.
La sfortunata operazione è durata in tutto novantasei ore.

Di chi era la mano? L'operazione era stata ideata e diretta dal Ministro degli esteri francese de Villepin, di cui, all'Università, la brillante giovane Betancourt era stata una delle allieve preferite e - secondo le Monde e alcune indiscrezioni che girano negli ambienti diplomatici di Bogotà - "qualcosa di più". Chi aveva interesse a rompere le uova nel paniere all'ambizioso de Villepin, a cui forse la liberazione di Ingrid Betancourt, popolarissima in Francia (nei cafés espongono il suo ritratto con la scritta "Liberez Ingrid!") sarebbe valsa la prossima Presidenza della République?

Le ipotesi sono due: o una vendetta servita fredda dalla CIA per la dura opposizione di Villepin ai bombardamenti su Bagdad o uno stiletto avvelenato molto più vicino: quello del Ministro degli Interni Sarkozy, che, secondo Le Monde, non ha mai sopportato il fascinoso collega degli Esteri e che - oh, i casi della vita! - era in visita ufficiale in Colombia proprio in quei giorni.

A favore dell'ipotesi della manona statunitense starebbe anche il fatto che nelle mani delle FARC ci sono tre piloti americani abbattuti mentre sorvolavano le zone della guerriglia. E sarebbe uno smacco grave se i francesi riuscissero a liberare un ostaggio mentre gli americani non ci riescono. Che figuraccia.

In ogni caso, l'alto ufficiale dei Federali brasiliani è al corrente di tutto. E' costernato, e offre a Juan Carlos - che ormai ha capito che il salvataggio della moglie è stato fatto fallire - tutto l'appoggio possibile.
Gli presta un GPS e un telefono satellitare. Fa il pieno di benzina all'idrovolante di un bizzarro missionario battista che vive da quelle parti e permette a Juan Carlos di proseguire fino al punto del prossimo rendez-vouz indicato da un misterioso informatore: Santa Antônio do Içà.

"Un volo di due ore su questo inferno verde che non finiva mai" racconta Lecompte "E il villaggio ...credo di non aver mai visto tanta miseria. Orribile. Non hanno niente, nemmeno le fogne. La merda corre in delle specie di canaletti in mezzo alla strada. Ho mangiato delle poltiglie immonde, riso e fagioli stracotti. Sono poveri come topi di fiume, non hanno niente, niente!
Lì ho aspettato il contatto con le FARC. Ci speravo ancora, che mi restituissero Ingrid. Sono rimasto dieci giorni, rosicchiato dall'angoscia, ma non si sono fatti vivi. Ovvio, erano spaventati da tutto il casino che è scoppiato. Nel frattempo mi è preso di tutto, la diarrea, i pidocchi, le zanzare che mi mangiavano. Meno male che un missionario mi ha dato l'Imodium. Fantastico, ha stoppato tutto. Alla fine non ce l'ho più fatta: col satellitare ho telefonato al comandante dei Federali. Mi ha detto di cercare una radura larga almeno cinquanta metri - non è mica facile, nella foresta amazzonica - e di calcolare le coordinate col GPS. Ho trovato la radura, un pezzetto di selva che gli indigeni avevano disboscato per coltivarci i fagioli. Ho preso le coordinate, ho richiamato e mi hanno detto che la mattina seguente sarebbero venuti a prendermi. Ho dormito in una specie di capanna che gli indigeni avevano abbandonato, le zanzare mi hanno mangiato tutta la notte. Poi alla mattina, appena chiaro, ho sentito un flap flap flap: un elicottero è sceso dal cielo in mezzo agli alberi. Mi dispiace, abbiamo schiacciato un po' di fagioli degli indigeni, ma che potevo fare? Ero stravolto, affamato, allucinato, forse avevo anche qualche linea di febbre: mi pareva di essere in un film. A bordo c'era proprio lui, il comandante dei Federali. No, il nome non lo posso dire. Comunque una persona squista. Mi hanno caricato a bordo e mi hanno riportato a Leticia. E qua stiamo. Senza Ingrid. E senza nemmeno una prova della sua esistenza in vita?"

Cosa conteneva l'Hercules? I francesi dicono (ora) che era un aereo carico di medicinali, in missione umanitaria. Ma l'ipotesi che gira a Bogotà è molto più grave.

"E' possibile, è ipotizzabile " mi dice un alto diplomatico "che L'Hercules abbia contenuto materiale da guerra sofisticato: forse visori a infrarossi, forse apparati di comunicazione criptati, forse addirittura missili portatili terra-aria. A chi erano destinate quelle armi? E in cambio di cosa? O, piuttosto: di chi? Perché i francesi hanno rifiutato le ispezioni brasiliane col pretesto dell'immunità diplomatica, se l'aereo trasportava solo medicinali?"

Insomma, dice il diplomatico, i francesi ne hanno fatta un'altra delle loro: in un attacco di grandeur hanno completamente ignorato i governi della Colombia e del Brasile tentando un'azione da commandos per liberare la Betancourt, e trattando direttamente con uno dei gruppi considerati terroristi. Un'azione politicamente gravissima, fatta senza consultare gli alleati europei. E, secondo i giornali francesi, nemmeno lo stesso Giscard, che sarebbe furibondo.

Da mesi i familiari di Ingrid non hanno dalle FARC, che sono durissime nelle trattative, nemmeno una prova che Ingrid sia in vita. Però Raul Reyes, ministro degli esteri delle FARC, ha appena inviato una lettera a Kofi Annan per chiedere che sia ascoltata anche la voce delle formazioni armate per una soluzione politica alla guerriglia. Può darsi che un gesto umanitario come la liberazione della candidata di Oxigeno, che sarebbe in gravi condizioni di salute, potresse costutuire un atto di buona volontà da parte delle FARC.
Un atto di buona volontà che qualche manona (o manina) ha sabotato.


Truppe Elite colombiane (foto El Tiempo)

Intanto di Ingrid Betancourt, birillo inerme in questi scontri al vertice tra stiletti e mazze da baseball, si sono perse nuovamente le tracce e, nella bella casa bogotana del Castillo, la famiglia è ripiombata nell'angoscia.




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