Tristi le facce delle jineteras

Altro che salsa, sole e sesso: di giorno l'Avana è una città intrisa di tristezza. Sono tristi le strade dell'Avana Vieja, graveolenti di odori. Sono tristi le case con le loro facciate nobili che si sbriciolano, le scale con le balaustre di marmo tutte rotte, gli intrichi di fili elettrici che penzolano e i baracoa, le conigliere soppalcate di venti metri quadri ricavati dagli spaziosi vecchi appartamenti in cui si vive in tre, quattro, cinque. E dieci famiglie dividono un cesso.


Sono tristi le facce delle jineteras nei bar, e ancora più tristi quelle dei ragazzi che le tengono malinconicamente mano nella mano: dopo il sesso non c'è gran che da dirsi - specialmente se il chico non parla spagnolo. Sono tristi le farmacie in cui manca di tutto, soprattutto anestetici e antidolorifici. Se vi viene una colica, niente Voltaren. Tutto quello che il vostro medico può fare - e i medici cubani sono bravissimi - è un'applicazione di agopuntura o un rimedio omeopatico.

Sono tristi le bodegas in pesos, vuote di ogni ben di dio, dove i cubani che non hanno accesso al dollaro - spesso professori, medici, funzionari di stato - fanno la fila guardando accigliati le poche carote spelacchiate e i carichi che arrivano con l'inefficienza delle economie centralizzate e poco elastiche: questa settimana solo arance e cappelli di paglia, la prossima solo banane verdi e cipolle.

I limoni mai. Non ci sono limoni per i cubani che pagano in pesos, quelli vanno tutti nei daiquirì dei turisti e nei supermercati dove si paga in fula, in dollari USA.


Ma i cubani non si abbattono facilmente, sanno prenderla in ridere, e la tristezza svanisce, si sublima tra due battute e una risata nell'eterno buscar e resolver, la caccia a un dollaro per svoltare la giornata, la caccia a una passera per svoltare la serata. Passa una mulatta sensuale, cammina a passo di danza muovendo mollemente due chiappe altissime, dure ed elastiche come uova sode. Qualcuno le lancia un piropo, un complimento un po' osé, lei fa finta di niente e tira avanti sorridendo. Gli occhi dei maschi la seguono carichi di sperma, le lingue passano sulle labbra piene di desiderio. Stanotte, quando il caldo appiccicaticcio avrà lasciato il posto alla brezza che dal mare soffia sul Malecón, sarà il solito groviglio di lussuria, di corpi e di gemiti che, in quattro secoli, ha creato questa razza meticcia e straordinaria.








L'Avana Vieja si fa il vestito nuovo

C'è un uomo di genio, all'Avana. Si chiama Eusebio Leal, e ha un titolo bellissimo: è l'Historiador de la Ciudad de la Habana. E' l'uomo che, col suo staff, sta ricostruendo la Habana Vieja, dichiarata nel 1988 Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO.

La Habana Vieja è un formicaio brulicante di vita: nel Cinquantanove le belle case in stile eclettico coloniale abbandonate dai cubani ricchi sono state occupate dalla Revolución e distribuite al popolo, una stanza per famiglia. Le stanze, alte cinque metri sono state suddivise ulteriormente con un soppalco a formare i cosiddetti baracoa. Gli abitanti vivono come conigli in questi appartamenti in cui i fili elettrici e telefonici pendono dai soffitti in grovigli inestricabili e pericolosi, le scale sono rotte e pericolanti, le facciate scrostate da cinquant'anni di mancata manutenzione. Negli atri, sulle scale, fastigia di uno splendore antico, un medaglione col busto del padrone di casa, un affresco rosicchiato dal salnitro, un angiolino di marmo col braccio spezzato.


L'Historiador della Habana si è fatto dare pieni poteri direttamente da Fidel Castro, ha fatto sloggiare gli abitanti di alcuni palazzi storici, gli ha procurato una casa (di proprietà) nelle orrende borgate di Alamar o Cotorro e i palazzi sono stati ristrutturati. Sono diventati alberghi, bar o negozi, case per anziani, laboratori artigianali, atelier di artisti. I proventi degli alberghi e degli affitti vengono reinvestiti in nuove ristrutturazioni e così via. Le Nazioni Unite danno consulenza e finanziamenti. Leal è riuscito a creare 12.000 posti di lavoro per gli abitanti dell'Avana Vieja. Le conigliere puzzolenti di fogna, le case scrostate, le facce cupe degli abitanti, in grandissima parte neri, stanno pian piano cedendo il passo a vezzosi palazzi pastello, a camerieri un po' figli di puttana, a turisti color aragosta che sorbiscono i loro mojitos alla Bodeguita del Medio e si sentono tanto Hemingway.




Il bar dell'Hotel Telegrafo, ricavato rispettando e inglobando le rovine preesistenti.


Sarà un bene? Sarà un male? Non c'è dubbio che l'Avana Vieja debba essere risanata e ristrutturata. Una parte dei suoi abitanti - certo quella con più meriti rivoluzionari - tornerà a viverci (non in proprietà, in affitto). Ma vedere il Meson de la Flota, già orrida tavernaccia da ron e puttane, spostato di duecento metri e completamente rigabettato, popolato da inglesi sudati che fumano avana nuovi nuovi guardando una ballerina di flamenco tutta perbenino, mi sembra tanto Disneyland.







Tre pesci sotto la ceiba

Ramòn lo becco sull'autopista sotto un sole che brucia, con la moglie e un bambino di un anno, una sporta sotto il braccio e un ventilatore nell'altro: stanno portando a casa il bambino dall'ospedale. Una brutta enterite, ma adesso è guarito. Chiacchieriamo, è simpatico, magro, biondo, un po' lacero, fa l'insegnante in una scuola secondaria.
"Va bene, grazie, scendiamo qui al bivio: lei va verso Bahia Cochinos, no? Noi proseguiamo a piedi, casa nostra non è lontana."
Dò un'occhiata al sole che picchia, alla strada calcinata:
"Ma no, troppo caldo per il bambino. Guidami, Ramòn, ti accompagno."
"Ma no, ma no, non disturbarti! Saranno quattro chilometri!"
Nello specchietto vedo l'occhiata della moglie, prega che invece mi disturbi.
"Quattro chilometri? Cosa vuoi che siano, in macchina. Di qua?"
La strada diventa polverosa. Arriviamo alla casa, una costruzione di legno poverissima, l'orto, una grande ceiba frondosa, una vecchia Lada 124 di quelle che facevano a Togliattigrad con le catene di montaggio smesse dalla FIAT. Ma la carrozzeria è arrugginita, i sedili sono spariti e nemmeno le ruote ci sono più.


Ramon insiste che scenda, mi invita a prendere un caffè, nonni e zie abbracciano il bambino. Accetto, mi siedo all'ombra della ceiba. Non hanno niente, sono veramente poveri. Ramon è un entusiasta, ama Cuba e il socialismo, adora Fidel e dice che sì, ci sono delle difficoltà ma passeranno, noi cubiani tiriamo avanti lo stesso. Gli Anni Novanta, quelli sì che sono stati duri.

Arriva la mamma, intimidita, con tre pesci magri magri appena fritti, su un piatto di plastica. Ramon me li offre, li mangiamo insieme, con le mani, conditi con qualche goccia di limone staccato da un albero dell'orto e con la felicità di Ramon per l'ospite straniero, per la bella giornata , per il bambino guarito, per il trionfo immancabile della rivoluzione.

Non so se ho mai mangiato dei pesci così buoni.








La chica e la bambina

Per le strade dell'Habana vecchia i ragazzini giocano a domino o a baseball con palle di legno e guanti rimediati. Occhieggi nei bassi dalle porte spalancate e vedi ragazzi, in maggioranza neri, stravaccati di fronte ai televisori. La sensazione di degrado è forte, sottolineata dalla puzza di fogna, di immondizie fermentate, di soffritti bruciati. Le case sono pesantemente sbarrate, in ogni appartamento la porta è chiusa da un cancello supplementare. Di fronte a una finestra a mezzaluna tagliata in un portone e protetta da sbarre una piccola folla compra le cajitas, scatole di cartone con cose povere, patate e pollo, o yucca e salsiccia: un fast food alla habanera. Dentro un portone spalancato due ragazzi, due ragazze e una bambina se ne stanno stravaccati su divani sdruciti di skai, guardando la televisione. Una delle ragazze mi chiama: "Ehi, amigo, ti piace questa chica? Vieni, vieni, guardi che roba!" La chica si fa avanti , si mette in mostra, assume pose sexy. E' magra, ossuta, non ha l'aria tanto sana. I due ragazzi ridono, la bambina guarda la scena e ride anche lei.







Primero de Mayo

El Primero de Mayo me lo voglio fare da cubano. Flora, la deliziosa signora nera che ogni mattina mi prepara la colazione con le guayabe, i manghi, i mamey appena raccolti nel giardino, è un'entusiasta di Fidel. Ci iscriviamo con una brigata di vicinato, andremo tutti in camion in Plaza de la Revolución: sveglia alle tre, partenza alle quattro. Per la Revolución si soffre volentieri.

Ma la mattina piove a dirotto, uno di quegli acquazzoni tropicali battenti che non hanno misericordia per il popolo. Flora e io ci guardiamo. Lei, che sorride sempre, esclama: "El primero aguacero de mayo, Enzo: brinda suerte mojarse!".

Bagnarsi col primo acquazzone di maggio porterà anche fortuna, ma non me la vedo, questa signora di sessant'anni, issata su un camion a cantare l'Internazionale sotto questo diluvio. E tanto meno mi ci vedo io. Che cazzo, mica è la mia rivoluzione. Sarà meglio prendere la macchina.

Non c'è traffico per i grandi viali di Cuba. La Quinta Avenida è deserta nel buio, sotto la pioggia che scroscia violenta. Arriviamo vicinissimi alla Plaza che sono ancora le quattro e mezzo. Dalla campagna stanno arrivando torpedoni carichi di cubani venuti a festeggiare la rivoluzione.

L'aria è festosa, da scampagnata. Mi stupisce la completa assenza di polizia in assetto di ordine pubblico, caschi scudi e manganelli. Ma è ovvio, chi mai farebbe una manifestazione di protesta in un paese in cui se dirotti il traghetto della baia ti mettono al muro?

Facce, tante belle facce entusiaste, piene di partecipazione. Vengono distribuite centinaia di migliaia di bandierine di carta. Bambine sulle spalle dei papà, tanti studenti in pantaloni avana e camicia bianca, tanti scolaretti col fazzoletto rosso.

Verso le otto arriva il sole. “Vedi? Fidel è baciato dalla fortuna” dicono due signore entusiaste. Sul palco, assieme ai dirigenti del partito, c'è Gianni Minà, c'è il colombiano Santiago Garcia, c’è Gabo Marquez. Ma mancano esponenti importanti della sinistra mondiale: manca Eduardo Galeano. Manca un vecchio comunista come José Saramago, che ha dichiarato: "Fino a qui sono arrivato. D'ora in poi Cuba seguirà la sua strada e io la mia (...) Il dissenso è un diritto scritto con inchiostro invisibile...".

La mattinata inizia coi discorsi delle delegazioni straniere. Poi, verso le dieci, il Comandante, lentamente, nella sua uniforme verde oliva, si avvicina al podio.
Ammettiamolo: il vecchio pitone conserva sempre il suo fascino. Lo pensi nelle foto di Korda o di Raúl Corrales, giovane ribelle sulla Sierra Maestra, o quando si giocò il tutto per tutto a Playa Girón, con la flotta americana che premeva giusto fuori delle acque territoriali. Quando parla – e accidenti quanto parla – te encanta.


Ma quest’anno pronuncia un discorso particolarmente duro. Manda invettive violente al “señor Bush, cinico y cobarde”, accusa un complotto mondiale nazi-fascista, dice che, per quanto sia contrario alla pena di morte, le tre fucilazioni sono state un male necessario. Tira in ballo il Papa. Dice (a proposito dei tre fucilati) che nemmeno Gesù, che cacciò a frustate i mercanti dal tempio, avrebbe proibito al popolo di difendersi. Certo, esagera. Ma ha il polso della folla, e ogni parola d’ordine, a ogni “Revolución”, a ogni “resisteremo fino alla morte” la folla sventola entusiasta le bandierine. E quando termina con un tonante “Hasta la victoria! Siempre!” tutti scandiscono in coro, entusiasti, “Fi-del, Fi-del, Fi-del!”.


L’entusiasmo è palpabile, è vero, è sentito. Ma a un orecchio occidentale un po' cinico suona tanto come “Du-ce!, Du-ce!, Du-ce!”.








La mistica della sofferenza

"Per quarant'anni abbiamo coltivato la mistica della sofferenza, un furore rivoluzionario che ci faceva sentire duri e puri" dice un professore universitario. "Abbiamo fatto sacrifici inenarrabili in nome della rivoluzione. Adesso mi trovo a guadagnare quindici dollari al mese, quello che un posteggiatore guadagna in un giorno. E nello sguardo dei miei figli sento il rimprovero perché non posso permettermi di comprargli la felpa della Nike. Non è piacevole"



Uniforme scolastica, fazzoletto rosso e Barbie sulla cartella.


La frattura nei valori tra padri e figli. Ecco un altro aspetto importante del cambiamento che sta vivendo Cuba. Frugali, ideologizzati, fedeli alla linea, i genitori hanno costruito a testa bassa una Cuba in cui tutti i bambini potessero andare a scuola e la sanità fosse a disposizione di tutti. Ora i figli inseguono il dollaro facile, il contatto con un turismo spendaccione corrompe la vecchia frugalità rivoluzionaria. Si è creata una nuova classe sociale, quella di chi guadagna in dollari. E i nuovi proletari sono gli insegnanti, i ricercatori, i medici: chiunque abbia più cultura che iniziativa.







Fragola e cioccolato

Il paladar più bello, la Guarida, quello in cui è stato girato Fragola e Cioccolato, è in uno di questi palazzi nobilmente decaduti.

Dentro alla Guarida quadri, fotografie, cibi raffinati, bei bicchieri, luci giuste. Le foto della Regina Sofia di Spagna, che nel suo viaggio all'Avana (il primo dei Reali di Spagna dal 1898) ha cenato qui, foto con dedica di Sean Connery, di Michael Douglas, di Sofia Loren. Bei ragazzi che servono in tavola, con l'aria da intellettuali.

Fuori scale male illuminate, le balaustre di marmo di Carrara tutte rotte, un angioletto di marmo rosa a cui qualcuno ha spezzato un braccio. Finestre aperte per il gran caldo, scorci di tizi seminudi sbracati su una poltrona e illuminati solo dal televisore, puzza di fogne che perdono, di soffritti bruciati, di piedi. Una giovane puttana fa entrare un cliente nel suo baracoa male illuminato, poi va un attimo a sciacquarsi nel cesso in comune sul ballatoio.

Sul cesso, la scritta "Per favore usa pure la luce, ma spegnila quando hai finito. Ricordati che lampadine sono a libreta".


(La libreta è la tessera di razionamento su cui ogni cubano conta per sopravvivere).







Dirotta il vaporetto!

Poi, il botto: undici disgraziati con una pistola cercano di dirottare il traghettino che attraversa la baia dell’Avana dalla città vecchia a Regla, una roba tipo il vaporetto per Torcello, assolutamente inadatto ad attraversare lo stretto di Florida. Non c’è neanche abbastanza carburante, e infatti il traghetto comincia a sputazzare e si ferma ben prima di raggiungere le dodici miglia. I guardacoste lo raggiungono, lo fermano, arrestano gli undici. Un atto così disperato e male organizzato che al massimo avrebbero dovuto prenderli a pernacchie. E invece, nonostante i turisti stranieri siano concordi nell’affermare che i pirati sono stati correttissimi e che non c’è stata nessuna violenza, tre dirottatori (“I più violenti”, secondo l’accusa) vengono fucilati dopo un processo sommario e senza garanzie.







La primavera infranta

Se ne stanno tutti zitti e abbottonati, i cubani: sul Paseo de Martì, alla gelateria Coppelia, al caffè dell'unione Scrittori al Vedado, nelle piazzette dell'Avana vecchia. Dopo le fucilazioni dei tre disperati che avevano cercato di dirottare il traghetto della baia è impossibile parlare con qualcuno, a Cuba. Tutti zitti, tutti spaventati e rintanati i dissidenti ancora fuor di galera. Muti gli scrittori e i giornalisti. Doppiamente prudenti alla nunziatura apostolica, che rifiuta qualsiasi dichiarazione.

E' comprensibile. In un mese – aprile, il più crudele dei mesi - il governo di Fidel Castro ha spezzato le ali a quella che sembrava essere la primavera di Cuba: il cambio, l’apertura, più spazio alle voci critiche, maggior facilità di espatriare, i primi scambi con gli USA, addirittura i primi segni, se non di un secondo partito, almeno di un movimento d’opinione non allineato al regime. Poi, brutale, il pugno d’acciaio. Che in russo, come ben si sa, si traduce Stalin.
La prima mossa per schiacchiare l’opposizione sono stati gli arresti e i processi: 78 intellettuali, giornalisti e attivisti dei diritti umani che, dopo giudizi a cui non sono stati ammessi diplomatici e giornalisti stranieri, dovranno scontare anche 20 anni per diritti di opinione: complessivamente 1454 anni di galera.

Tra loro il poeta Raúl Rivero, l'economista Martha Beatriz Roque, l'intellettuale Hector Palacios, il premio Sakharov per i diritti umani Osvaldo Payà. Otto tra i dissidenti erano in realtà informatori infiltrati dal Ministero degli Interni cubano, e adesso tutti sospettano di tutti.

Secondo Elizardo Sanchez, uno dei leader dei dissidenti,"Questa forma di repressione è la peggiore che si ricordi nella storia di Cuba, senza escludere l'era coloniale. Mai prima d'ora tanta gente è stata così severamente punita per dei crimini di pensiero. Sono veramente prigionieri di coscienza".








Il potere corrompe anche i rivoluzionari.

"Castro è stato un eroe, e noi gli vogliamo bene" mi dice un ragazzo nero nel Paseo di Martì "Ma non si può stare al potere assoluto per quarant'anni senza corrompersi. Non è più il potere al servizio del popolo, ormai è il potere al servizio del potere. E' ora che se ne vada in pensione."







Un golpe in Plaza de la Revolución?

C'è un'altra ipotesi che gira sotterranea: in aprile ci sarebbe stato un tentativo di deporre Fidel dall'interno del Partito. Da qui la stretta improvvisa. Ma chi avrebbe tentato il golpe? Finora non è caduta nessuna testa. Sarà vero il tentativo di colpo di stato o le fucilazioni sono solo il risultato di dun attacco di paranoia del vecchio leader? Al momento in cui scriviamo ancora non ci sono dati sufficienti per capire. E allora lasciamo parlare i cubani e chi a Cuba ci vive. E capisci che la maggioranza dei cubani ama ferocemente la propria isola, e non vorrebbe mai lasciarla. E che per molti la Rivoluzione è ancora un valore. Ma i cubani ne possono più di vivere in queste condizioni.







Le condanne dei compagni.

Il primo a rompere il silenzio è stato Pietro Ingrao che, sulle pagine del Manifesto, ha rivendicato "il coraggio della verità": "Gli imputati erano oppositori del regime castrista. E che altro essi potevano fare visto che a Cuba difettano essenziali diritti di parola, di organizzazione, di lotta politica pubblica e conosciuta?". La repressione castrista inquina un percorso di speranza che è l'unica alternativo alla "dottrina Bush della guerra preventiva".

Per Bertinotti "queste condanne a morte, vanno criticate. Sono piombo sulle ali del movimento pacifista". Dario Fo e Franca Rame raccolgono firme contro il giro di vite cubano.

La condanna più dura viene forse da un vecchio scrittore comunista duro e puro come il portoghese José Saramago: "Fino a qui sono arrivato. D'ora in poi Cuba seguirà la sua strada e io la mia", ha scritto su "El Pais": "Il dissenso è un diritto scritto con inchiostro invisibile...".

Se lo stanno chiedendo tutti. E finora non c'è una risposta, se non la giustificazione di Castro che dice: "L'abbiamo fatto per salvare la patria, per fermare sul nascere un'ondata di emigrazione che avrebbe dato agli USA la scusa per intervenire".

L'unico che non deflette è Gianni Minà: "Se la prendono con Cuba perché mette al muro tre sequestratori, ma non si occupano, per Realpolitik, delle duemila persone che sono sparite dopo essere passate negli uffici di sicurezza americani, dei soprusi commessi dalla Cina, del genocidio in Guatemala... "

Minà ha segnalato alle autorità cubane: "… la mia avversione di cattolico e cittadino del mondo per le condanne a morte (…) Ma il mio amore per Cuba non vacilla".







Nel giardinetto di Bush

In giro c'è sconcerto, non si capisce bene cosa sta succedendo. Fidel dichiara che le tre fucilazioni sono state un sacrificio necessario per difendere la patria dal rischio più grosso di un'invasione USA. E certamente Bush, dopo aver cancellato Saddam, sta guardando con occhi interessati a Cuba, che da due secoli gli USA considerano il loro backyard, il loro giardinetto di casa. Ma perché tre condanne a morte? Perché una risposta così sproporzionata, che ha sfidato tutta l’opinione pubblica mondiale, che è costata a Castro la condanna di voci amiche come Eduardo Galeano, Dario Fo, José Saramago e di gran parte della sinistra mondiale? Il paredón - il muro - a tre disperati - neri, fra l'altro - che hanno dirottato un vaporetto senza carburante, senza far male a nessuno, trattando bene gli ostaggi?







Due posteggiatori di classe

Guidare per l’Avana è piacevole, il traffico è leggero, il parcheggio si trova facilmente. Di fronte al porto ci sono due posteggiatori sui sessanta, simpatici, dall’aria colta, gli occhialini e impeccabili magliette Havana Club, che parlano uno spagnolo cortese e forbito. Due posteggiatori di classe. Gli affido spesso la macchina, quando la riprendo lascio sempre un dollaro, e facciamo amicizia facilmente. Gli chiedo che lavoro facevano, prima.
“Io ero direttore di una fabbrica di sigarette” mi dice Mario.
“E io ero responsabile delle operazioni di una catena televisiva” sorride René, che è quello della foto qui sotto.
Ovvio. Come parcheggiatori guadagnano in un giorno quello che prima guadagnavano in un mese. E in dollari.



Ieri direttore generale, oggi posteggiatore.







I nostri dissidenti all’Avana

"I dissidenti? Oh, qui a Cuba ogni ambasciata aveva i suoi, e spesso non si conoscevano l'uno con l'altro" mi dice un diplomatico, con un pizzico di distaccato cinismo." Hai presente Graham Greene? Il nostro agente all'Avana? Essere un dissidente dava status, dava accesso a finanziamenti e aiuti. Perché è ovvio, gli americani li finanziavano largamente. Un po’ tutti lo facevamo, fa parte del gioco. Non dico che tutti ci marciassero, anzi: molti di loro sono comunisti sinceramente interessati a un'apertura del partito, a un cambiamento in senso democratico. Tanti, però, sull'etichetta di dissidente, ci hanno costruito piccole fortune. Ma sai com'è ... a Cuba non sai mai davvero chi ti sta davanti. Pensa a quegli otto dissidenti che in realtà erano stipendiati - o chissà, magari ricattati - dal Minint."

Già, il Minint. Buoni, quelli. Dò un passaggio a tre funzionari del Ministero dell'Interno in divisa, una bionda carina e due uomini. Un gelo. Nelle poche domande che mi fanno - da dove viene, cosa fa a Cuba, le piace l'isola - c'è un tono inquisitorio di cui probabilmente nemmeno si rendono conto.

Non lo fanno neanche apposta, credo. Pura deformazione professionale. Scuola sovietica, KGB, Andropov, Putin. Giuro che non vorrei passare neanche un minuto chiuso in una stanza con loro.





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